EDITORIALI IN PELLICOLA
L'impresa impossibile di fare
i conti con Stanley Kubrick
di Francesco Bellu
SASSARI. Questo articolo avrei dovuto scriverlo ieri. Perché era la data "giusta". La ricorrenza. In realtà ho scelto il giorno successivo, non per pigrizia o dimenticanza. Semplicemente perché andava in qualche modo "somatizzata". Può sembrare paradossale, ma il ricordare che il 7 marzo 1999 moriva Stanley Kubrick, soprattutto per chi scrive di cinema, è sempre un po' difficile. Perché anno dopo anno ci si rende conto che qualunque parola si scriva su di lui, non è mai sufficiente. Ad ogni suo film ci si trova sempre di fronte ad un qualcosa di troppo grande da poter essere in qualche modo canalizzato in un discorso critico esaustivo, chiuso in un'analisi "definitiva".
Kubrick l'ho conosciuto, cinematograficamente parlando, in televisione. Ero troppo piccolo nel 1987 quando uscì "Full metal jacket", stesso discorso per "Shining". Per il decennio precedente, non ero nemmeno nato. Ironia della sorte l'unica sua opera che vidi sul grande schermo era anche l'ultima, uscita postuma in Italia sei mesi dopo che se n'era andato: "Eyes wide shut". Rimasi a disagio all'uscita, come peraltro era sempre successo tutte le volte con un suo film. Come se mi fossi trovato di fronte ad un qualcosa che non riuscivo ad afferrare. Mi era piaciuto? Con il senno di poi dico: "sì". Sul momento però ricordo solo tanta confusione. Anche perché chi era venuto con me aveva la mia stessa impressione. Quella di un treno che ti passa sopra di corsa e ti lascia completamente devastato. A distanza di tanto tempo - 14 anni - quella sensazione di spaesamento elettrico rimane fortissima. Era la stessa che avevo provato ogni volta che avevo visto un suo film per la prima volta. Da "Full metal jacket" a "Shining", da "Barry Lyndon" - uno dei miei preferiti - a "2001, odissea nello spazio", da "Arancia meccanica" a "Lolita", solo per citarne alcuni.
Perché i suoi lavori scardinano ogni possibilità di sistematicità. Ti mettono spalle al muro, ci devi fare i conti. Sempre. Senza nessuna possibilità di tirarti indietro. Sei tu e lui. Nessun altro. Sarà che i suoi film sono un po' come dei corpi estranei alla realtà che ci circonda, sempre proiettati verso l'oltre in senso lato. Fuori dai tempi, dalle percezioni visive attuali anche quando sono cronologicamente distanti dal presente ("2001" rimane tutt'ora troppo avanti alla nostra contemporaneità). Il regista Sydney Pollack, che proprio con Kubrick ha recitato in "Eyes wide shut" aveva sintetizzato in maniera ironica lo choc emotivo provocato dall'autore americano ogni volta che presentava un nuovo progetto: «Non mi ricordo un solo film di Stanley Kubrick che non creò una controversia quando uscì nelle sale. [...] E poi passano dieci anni e sono tutti classici». In realtà, nemmeno la parola "classico" è adatta. Anzi nessuna etichetta è applicabile a Stanley Kubrick. Sfugge volutamente a qualsiasi definizione. Kubrick è solo Kubrick. Impossibile trovare termini di paragone. Rimane un paradigma assoluto. Ed è forse per questo motivo che oggi non c'è nessuno come lui, nonostante più volte si sia provato a trovare un suo "erede" o quantomeno un figlio putativo. Un destino che lo accomuna a Orson Welles e Alfred Hichcock.
Unico nome che mi viene in mente è Paul Thomas Anderson con il quale condivide un cinema poco conciliante verso chi guarda, di fronte al quale, anche in questo caso, è necessario fare i conti. Ma Anderson rimane incollato al suo essere un cineasta americano e in quanto tale racconta le contraddizioni della propria nazione riflettendole in un rapporto genitoriale tra padri e figli, Kubrick al contrario l'America se l'è lasciata alle spalle. Domina la geometria e lo spazio. Linee nette e simmetriche sul quale impostare però il disordine caotico delle esistenze. Da qui i paradossi: l'elmetto del soldato "Joker" con il simbolo della pace e la scritta "Born to kill", i soldati in marcia che cantano "Topolin" di "Full metal Jacket", la necessità di "scopare" nel finale di "Eyes wide shut", le pulsioni sessuali scombinate nell'ordinato professorino inglese che si innamora di una quindicenne in "Lolita", le bassezze di una società abietta che copre le proprie miserie con precisi rituali e bellezza formale in "Barry Lindon".
Così ogni volta non rimane altra alternativa che continuare a guardare i suoi film, sapendo già che avrà sempre e comunque "vinto" lui. Ogni volta gli strumenti per indagare a fondo non bastano mai. Si trovano mano a mano nuovi significati, nuove chiavi di lettura, ma altrettante sfuggono. In una continua rincorsa che non finirà mai. Per fortuna.
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