Sassari. Ogni anno, in Italia, circa 5.300 donne si ammalano di tumore ovarico e 3.300 muoiono a causa di questa patologia. I fondi per la ricerca non bastano. Per questo è necessario investire nello sviluppo di farmaci per curare le recidive, che si presentano addirittura nell’80 per cento dei casi. È quanto emerso oggi al convegno dal titolo “Il sogno di Irene vive in ALTo”, una tavola rotonda organizzata dall’associazione ALTo (Associazione Lotta al Tumore ovarico) per puntare i riflettori sulla diagnosi e sul trattamento di questa patologia discriminata, poco conosciuta, che ancora oggi, a fronte di cure limitate, ha un altissimo tasso di letalità. Al convegno, che si è svolto nei locali del circolo “Diavoli rossi” della caserma “La Marmora”, sede del Comando della Brigata “Sassari”, hanno partecipato professionisti del settore che lavorano nei più importanti istituti di cura e ricerca d’Italia.

Presenti in sala numerosi ospiti tra i quali il prefetto di Sassari Grazia La Fauci, il presidente del Consiglio regionale della Sardegna Michele Pais, l’assessore regionale dell’igiene e sanità e dell’assistenza sociale Carlo Doria, il rettore dell’università di Sassari Gavino Mariotti e, in videocollegamento, numerosi studenti della facoltà di Medicina e chirurgia dell’ateneo turritano. Ad aprire i lavori è stato il comandante della Brigata “Sassari”, il generale Stefano Messina, convinto sostenitore dell’iniziativa e della necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica su una tematica di estrema attualità. “Occorre puntare sulla prevenzione primaria, ovvero sulla diagnosi precoce, e sulla terapia”, ha esordito il generale Messina. “Ma questo non basta. Dobbiamo anche accompagnare le donne colpite da questa terribile patologia nel lungo percorso terapeutico, aiutare e sostenere la ricerca per cercare di sconfiggere una malattia insidiosa e aggressiva. È una battaglia che può e che deve essere vinta, per la salute delle pazienti, per il miglioramento della possibilità di sopravvivenza e la qualità della vita”. A seguire ha preso la parola la presidente dell’associazione ALTo, Maria Teresa Cafasso, la quale ha sottolineato che “una donna che si ammala di cancro ovarico è anche una figlia, una mamma, una sorella, una moglie e troppe famiglie si ritrovano a dover fare a meno di loro a causa di una patologia che lascia pochissime speranze di sopravvivenza. È necessario implementare la ricerca mirata affinché sempre più donne malate possano finalmente avere un’aspettativa di guarigione”. Il convegno, moderato dal giornalista Ivan Paone, è entrato nel vivo con gli interventi dei relatori che hanno affrontato tutti gli aspetti della malattia: dalla diagnosi alla chirurgia, passando per le attuali terapie e le esigenze relative a prevenzione e cure.

Durante la tavola rotonda hanno preso la parola, nell’ordine, il dottor Luigi Carlo Turco (direttore dell’Ovarian Cancer Center presso l’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) di Candiolo), il dottor Ugo Cavallaro (direttore dell’Unità di ricerca in Oncologia ginecologica presso l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano), la dottoressa Laura Franco (biotecnologa, medico chirurgo e ginecologa in formazione presso l’Azienda Ospedaliera del Policlinico universitario “Federico II” di Napoli), il dottor Marco Petrillo (dirigente medico dell’Unità operativa di Ostetricia e ginecologia oncologica presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari), la dottoressa Maria Vittoria Carbone (dirigente medico presso l’Unità operativa di Ginecologia oncologica del Policlinico universitario “Agostino Gemelli” di Roma), il dottor Francesco Multinu (dirigente medico presso il Gynecologic Cancer Surgery dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano) e il professor Giovanni Scambia (direttore scientifico e presidente del comitato esecutivo della Fondazione policlinico universitario “Agostino Gemelli” di Roma e presidente della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia).

Gli esperti sono concordi sul fatto che l’unica prevenzione possibile riguarda le donne che presentano una mutazione dei geni BRCA, più famosa come mutazione Jolie, dal nome dell’attrice che l’ha resa celebre: in base all’età e alle esigenze di maternità, le donne che presentano questa mutazione possono sottoporsi a un intervento preventivo con asportazione di tube e ovaie. La ricerca ha fatto enormi passi in avanti, offrendo valide opzioni terapeutiche anche in tumori diagnosticati in stadio avanzato, permettendo ai pazienti di cronicizzare realmente la malattia e, in alcuni casi, arrivare addirittura alla guarigione. Ma non basta, perché, nella maggior parte dei casi, la prognosi resta ancora infausta. La maggioranza delle pazienti, inizialmente, ottiene una remissione dalla malattia dopo un intervento chirurgico, quando possibile, e sei cicli di chemioterapia. Ma oltre l’80 per cento delle donne andrà incontro ad una o più recidive, ad oggi inguaribili. La sopravvivenza a cinque anni si attesta ancora oggi intorno al 40% per scendere al 15% a dieci anni. Ecco perché è urgente avere nuovi farmaci mirati efficaci per curare le recidive e allungare la sopravvivenza: terapie approvate, e quindi disponibili per tutte le donne, per poter salvare migliaia di vite. Le conclusioni della tavola rotonda sono state affidate a Giuseppe Ruiu, promotore dell’iniziativa e marito di Irene, da cui il dibattito prende il nome, scomparsa il 1° agosto 2023 all’età di 47 anni.