di Gianluigi Tiddia

Urbanistica grezza, ma umana. (tra città, borghi e turismo che consumano invece di rigenerare).
Partiamo da una riflessione generale: non tutto deve essere patinato per funzionare. Anzi, spesso funziona meglio ciò che ha i bordi ruvidi, le superfici imperfette, le stratificazioni del tempo e delle vite reali. Quello che non è verosimile ma vero.
Negli ultimi anni, molte città italiane – Milano su tutte – sono diventate il laboratorio di un modello urbanistico sempre più omogeneo e asettico, che trasforma il territorio in merce. Un’estetica della crescita verticale, dei quartieri-vetrina, delle piazze che sembrano showroom e delle case diventate prodotti da Airbnb o da investimento.
Un’urbanistica al servizio del capitale, non delle persone.

Ogni nuovo progetto sembra rispondere a un’unica domanda: quanto possiamo monetizzare ogni metro quadro e non invece quanto possiamo far star bene le persone che lo vivranno, ci cresceranno, ci invecchieranno, ci costruiranno relazioni, comunità, senso.
È una corsa al profitto che ha poco a che fare con lo sviluppo – almeno nel senso umano e collettivo del termine.
Lo sviluppo, quello vero, non è solo aumento del reddito: è aumento del benessere, del tempo disponibile, della capacità di costruire legami, di camminare in una città che non ti fa sentire un corpo estraneo.
In questo contesto, anche il turismo è diventato parte del problema.
Spacciato come salvezza dei borghi, come futuro delle aree interne, come “volano” dell’economia delle città costiere, spesso si rivela solo uno strumento di espulsione silenziosa. Soprattutto quando non è governato con intelligenza, con etica e con una visione sistemica a lungo termine.

Prendiamo la Sardegna: isola sogno di tanti ma anche fragile e contesa.
Qui si sta verificando un fenomeno preoccupante e doloroso: interi quartieri cittadini (non solo nei centri turistici) stanno lentamente svuotandosi di residenti, per lasciare spazio a chi può permettersi di affittare, comprare o soggiornare stagionalmente.
Gli studenti, i giovani, le famiglie, i lavoratori vengono spinti fuori dai centri, ai margini, in un processo che ricorda da vicino quello di “gentrificazione turistica” che ha trasformato città come Lisbona o Barcellona.
Il turismo, invece di rigenerare, spesso sostituisce e il prezzo più alto lo paga chi avrebbe voluto rimanere, ma non se lo può più permettere.
Abbiamo trasformato i borghi in vetrine, i centri storici in musei a cielo aperto, le case in rendite passive, i paesi in location da Instagram.

Ma tutto questo non è sviluppo: è consumo di identità, turismo di estrazione, non di relazione.
Ecco perché oggi, più che mai c’è il bisogno (e il dovere) di parlare di un’altra idea di urbanistica.
Un’urbanistica semplice, quasi grezza, che non deve sembrare bella per forza, ma deve funzionare per chi ci vive.
Un’urbanistica che non abbia paura di essere umana, disordinata, inclusiva, che favorisca l’incontro, non l’esclusione, che metta al centro il benessere collettivo e non il ritorno sugli investimenti.
L’ho detto anche in passato in un TEDx: se vogliamo parlare davvero di sviluppo, dobbiamo ripartire dalle comunità.
Dalla possibilità per tutti di abitare, muoversi, lavorare, vivere bene nei propri territori.
Dobbiamo tornare a pensare che la città è un bene comune, non una piattaforma immobiliare, che i borghi (anzi, i paesi) sono luoghi dell’anima, non semplici attrattori economici.

Bisogna rimettere al centro il diritto a restare, a scegliere dove vivere senza essere espulsi dal mercato.
Dobbiamo permettere a tutti di avere il diritto a crescere in un quartiere dove ci sia una scuola, un ambulatorio, una biblioteca, un bar che non chiude a ottobre.
È ora di smettere di considerare lo sviluppo urbano come una faccenda per addetti ai lavori, architetti superstar o investitori con portafogli pieni.
L’urbanistica è una cosa politica e quotidiana, ci riguarda tutti perché ci definisce come società: decide chi ha diritto di stare e chi viene escluso.
Per questo è necessario costruire comunità, non solo edifici, coltivare relazioni, non solo ROI.
Progettare spazi di cura, non solo capitali di rendita.
Questa è l’unica speculazione in cui è necessario credere: quella sul futuro comune.
Tutto il resto è marketing urbano buono per una politica mediocre.