di Daniela Piras

Sassari. Da settimane, ogni domenica, diverse realtà associative si danno appuntamento in piazza d’Italia, a Sassari, per accendere un faro sulla situazione a Gaza. L’invito è a “disertare il silenzio”, a portare all’attenzione dell’opinione pubblica ciò che sta succedendo in quei contesti di guerra. Il programma prevede anche momenti di coinvolgimento tramite letture di testimonianze e poesie, nonché interventi pubblici. Una costante di tali appuntamenti è il rumore delle pentole: un modo simbolico per richiamare il fragore delle bombe e della fame che minaccia la popolazione civile palestinese, da mesi sotto attacco da parte del governo israeliano. Tra i temi di cui si discute, quello legato alla spedizione internazionale Global Sumud Flottilla, la cui partenza è prevista dalla Sicilia con l’obiettivo di rompere l’assedio di Gaza e consegnare beni di prima necessità. Alla missione partecipa anche la nave Life Support dell’Ong Emergency, con compiti di osservazione e supporto medico. Gli organizzatori sottolineano l’importanza di mantenere alta l’attenzione mediatica per garantire la sicurezza dei volontari e l’arrivo degli aiuti.

Ecco, in sintesi, ciò che si propongono di fare gli esponenti di tali associazioni. Ciò che si propone una parte di società. Un desiderio di umanità che, per ragioni da analizzare, infastidisce coloro che non solo non partecipano ma che, in qualche modo, sono addirittura irritati da ciò che accade. Qui a Sassari, mica a Gaza.

I commenti sotto il post che riporta la notizia sui social, si sprecano, restituendo un non ben definibile “dibattito” acceso e polarizzato.

Si va dagli attacchi politici: accuse a una vaga “sinistra” di strumentalizzare Gaza per fini elettorali, nei quali si ricorda che quando governava Biden “nessuno diceva niente”.

Si arriva poi agli insulti personali: diversi prendono di mira singoli commentatori, cercando di imbastire un botta e risposta usando sarcasmo e derisione. Il passo successivo è la ridicolizzazione: frasi come “ma andate al mare” o “limitati a parlare di calcio” campeggiano tra i commenti, con lo scopo di sminuire i partecipanti e le loro idee.

In generale, appare una netta contrapposizione ideologica: chi sostiene la manifestazione lo fa per motivi umanitari, mentre chi la critica tende a politicizzarla (sinistra, propaganda, ipocrisia) o a delegittimarla con ironia. Alcuni interventi cercano di riportare la questione su un piano più universale (pace, fine delle sofferenze), ma vengono sovrastati da sterili polemiche che si ingarbugliano tra loro.

Non mancano gli “esperti” di geopolitica internazionale che, forse per rendere comprensibili ai più le loro alte riflessioni, sintetizzano la questione in due posizioni agli antipodi, innescando un tifo da stadio: “Israele tutta la vita”, “perché i palestinesi non si ribellano a Hamas?”, “i morti sono colpa delle bombe di Hamas”.

Per finire, si aggiungono anche accuse di ipocrisia: paragoni con l’Ucraina o altre crisi, in cui s’insinua che chi protesta sia selettivo e mosso da propaganda.

Per fortuna, alcuni richiami all’umanità appaiono come faticosi intermezzi in questa giungla di commenti: alcuni difendono la manifestazione come gesto di solidarietà verso un popolo sotto assedio (“un giorno a Gaza e capireste”, “è semplicemente umano”). Si arriva anche all’ovvio, cioè a leggere la spiegazione del perché i palestinesi non possano ribellarsi (“sono disarmati e senza viveri”), chiarendo così la necessità di mobilitazioni esterne.

La domanda è una sola: perché queste mobilitazioni – pacifiche, ricordiamolo – hanno questi effetti su così tante persone? Cosa fa paura di chi si organizza per supportare il prossimo? Si parla di persone sotto assedio da mesi – persone, non pupazzi – che non riescono nemmeno a soddisfare esigenze basilari come mangiare o bere. E, nonostante questi dati oggettivi, incontrano non solo l’indifferenza, ma addirittura il sarcasmo e la condanna dei soliti leoni da tastiera, che non si curano nemmeno di scrivere sotto finto nome. Persone che potremo incontrare tutti i giorni in centro – in via Roma, all’Emiciclo – o, peggio, seduti accanto a noi tra i banchi durante una messa domenicale (senza pentole e fischietti, ma dove si narrano le ingiustizie subite da Gesù e s’invita alla solidarietà umana). Cosa li disturba? Cosa dà fastidio di queste pentole e fischietti? Forse il fatto che provino a risvegliare qualche angolo del cervello dove dovrebbe risiedere umanità, empatia, o semplicemente una coscienza?

Una bandiera palestinese esposta fuori da un’abitazione